Il comunismo. Non solo nostalgia
di Fausto Bertinotti
Caro Sofri,
ti sono sinceramente grato per la sollecitazione offerta dalla tua impegnativa lettera. Essa mi induce ad un confronto e ad una riflessione su questioni di fondo e di definizione della politica. Mi indica l'esigenza, con la quale concordo pienamente, di uscire dalla politica politicante che segna tanta parte del nostro tempo, di evitare il pragmatismo o la riduzione dei grandi pensieri nei sentieri solitari dei percorsi individuali.
Chiedere conto del perch? un partito si definisce comunista - anche se questa domanda viene avanzata per sostenere la necessit? di abbandonare questa definizione - sottolinea comunque la volont? di fare una discussione impegnativa sulla societ? in cui viviamo.
Eludere la domanda significherebbe accettare quell?impoverimento della politica al quale ha cos? tanto contribuito chi ha abbandonato l?idea della trasformazione sociale accettando la miseria dell?esistente. N? basta, a mio parere, per rispondere alle tue importanti domande, la sottolineatura che noi non parliamo di comunismo ma di ?rifondazione comunista?. E la parola ?rifondazione? dice della impossibilit? stessa di una continuit? e della necessit? di ricostruire dalle fondamenta. Ma, anche perci?, non basta. Noi che ci definiamo comunisti abbiamo il dovere di dire in che direzione intendiamo muoverci e quale sia il senso della nostra ricerca. Le risposte possono essere incomplete, ma devono essere date. Vale per noi in questo momento della storia il verso di Montale: ?Non domandarci la formula che il mondo possa aprirti/ s? qualche storta sillaba e secca come un ramo/ codesto solo oggi possiamo dirti/ ci? che non siamo, ci? che non vogliamo?.
Vorrei per? fare una premessa. Quello a cui assistiamo in questi anni ? un cambiamento del mondo, della sua organizzazione sociale e politica, dei rapporti sociali ed economici talmente forte che nessuna grande cultura del ?900 pu? resistere senza una ridefinizione. Pensiamo alla parola ?riformismo?. Essa ha assunto un significato cos? vasto, potrei dire multiuso, da potere essere rivendicato da destra e da sinistra e da potere assumere i significati pi? diversi. Oggi, per fare un esempio, si parla di ?riforma delle pensioni?, sia per dire che vanno tagliate, sia che vanno difese o migliorate. Lo stesso vale per i suoi significati generali.
Eppure il riformismo ? stata un?idea precisa del movimento operaio del ?900. I riformisti per un lungo periodo hanno avuto lo stesso obiettivo dei rivoluzionari, il socialismo, ma pensavano di perseguirlo in altri modi e con una gradualit?. Anche quando abbandonano l?idea socialista mantengono l?idea di eguaglianza e sottolineano il riferimento alla classe operaia quale soggetto principale della trasformazione sociale. Ancora Brandt - ricordiamolo - diceva che la socialdemocrazia non ? l?officina di riparazione del capitalismo.
Oggi questa idea di riformismo ? travolta, cooptata nel pensiero unico, sussunta e fagocitata dall?idea di modernizzazione. E tutto questo ? stato possibile anche perch? ? mancata una ricerca e una elaborazione che qualificasse diversamente il riformismo, lo ridefinisse come progetto politico non omologabile alla modernizzazione.
Ecco, su un diverso ordine di problemi, un compito simile a quello cui avrebbero dovuto assolvere i riformisti tocca a noi, a chi pensa che il termine comunista abbia e possa avere un uso nella politica del nostro tempo.
In questo quadro, la richiesta di fare i conti con il nostro passato, col passato di comunisti, non solo ? legittima, ma scaturisce proprio dall?esigenza di ridefinirci comunisti nell?oggi e quindi nasce da un?analisi critica della societ? contemporanea. Se il comunismo fosse un cane morto, se fosse inscindibilmente legato ad un?epoca storica passata, se fosse figlio dello sviluppo industriale e non del capitalismo, se fosse consegnato nel ciclo fordista, non avremmo motivo di esaminare cos? spietatamente, lucidamente quello che c?? dietro di noi. O meglio lo faremmo, ma solo per un interesse tutto storico. Se invece nella societ? che ci circonda rintracciamo, come rintracciamo, problemi e bisogni che hanno a che fare con quelli proposti dalla nascita del comunismo, allora fare i conti con la nostra storia diventa necessario per sapere che cosa ? vivo e che cosa ? morto, per poter di nuovo porre - se non risolvere - il problema della societ? futura. L?Angelus novus non ? solo una metafora della modernit?, ma del proletariato. Esso guarda le macerie e si rivolge al futuro. In quella torsione del corpo sta il suo messaggio e il suo avvenire.
La possibilit? che il comunismo sia pi? di una bandiera o di una nostalgia sta quindi proprio nell?analisi della societ? in cui viviamo. Nella tua lettera c?? un?affermazione che mi convince pienamente. Tu dici che siamo in una fase dello sviluppo che ci ha condotto ?vicino alle soglie della rovina universale?. ? vero, siamo proprio di fronte ad una crisi di civilt?. Basterebbe avere a mente la terribile tenaglia nella quale oggi il pianeta ? stretto per saperlo. La guerra preventiva ? entrata nel nostro tempo e lo sconvolge fino a plasmarlo. ? una guerra infinita e indefinita che l?impero promuove e alimenta per ricostituirsi quando ? manifesta la sua incapacit? di governare il mondo col consenso. ? la guerra della globalizzazione della crisi. La guerra favorisce l?estensione del terrorismo che porta alla guerra che a sua volta genera nuovo terrorismo. Siamo di fronte ad una crisi che ha caratteristiche terribili e devastanti per l?umanit?. Da cosa ? generata questa crisi? A mio parere proprio dalla natura di questa modernizzazione. Essa non si ? rivelata, come qualcuno ha voluto credere, come l?avvento del regno della libert? dopo la caduta del muro, n? il luogo della crescita e del progresso. Questa globalizzazione ha provocato un fatto inedito nella storia dell?umanit?. La separazione dell?innovazione dal progresso sociale e civile, della tecnologia dal miglioramento delle condizioni di vita, della scienza dalle possibilit? di avanzamento per l?umanit? e per la natura.
Tu chiami tutto questo ?guazzabuglio? e alludi a qualcosa di confuso, di irrazionale nel quale il capitalismo ha estinto se stesso, ad un caos che domina le nostre esistenze e ci avvicina alla rovina del pianeta. Ma questo ? il punto. ? davvero cos?? Possiamo parlare davvero di caos o in tutto questo c?? una ratio, una necessit? indotta dai rapporti sociali? Insomma c?? un ordine che produce questa crisi di civilt?? C?? una logica in questa follia? A mio parere s? e basta guardare ai passaggi di questa ultima fase della nostra storia per rendersene conto.
Quando finisce il ciclo fordista e keinesiano e crolla l?intero sistema dei Paesi dell?est si sviluppa un mutamento di fondo che possiamo definire una rivoluzione capitalistica restauratrice. In essa il dominio della scienza e della tecnica ? assoluto. A questo tutti sono sottoposti in una catena e in una consequenzialit? che arriva alla manipolazione del gene. In nome di questo dominio avanza e si afferma l?idea di poter abbattere ogni barriera culturale, nazionale, religiosa e di fare del lavoro la variabile dipendente dell?intero sistema. In questa modernizzazione la nozione di sfruttamento si dilata oltre i confini del ?900, alle persone e alla natura. Sfruttamento allargato, che coinvolge soggetti sociali, individui, ambiente, che va al di l? di ogni limite mai immaginato. Esso si raggiunge prima attuando una vera e propria operazione egemonica, poi imponendo l?ordine della guerra. Prima promettendo progresso, benessere, nuova libert?, cio? un mondo finalmente migliore per tutti dopo la caduta del muro e il dispiegarsi dell?innovazione. Poi, di fronte all?impossibilit? di raggiungere questi obiettivi, c'? una rapida e violenta conversione: la guerra come unico modo per imporre a tutto il pianeta una modernizzazione violenta, squilibrante, distruttiva ma, nell?apparenza che prendono i processi dominanti, senza alternativa.
Lo sviluppo non si realizza, i progetti saltano per aria da molti punti, compreso uno imprevedibile. Una gran parte delle popolazioni del Pianeta rifiuta di essere inclusa nell?ordine globale, non accetta i modelli che si vuole imporre, rifiuta la nuova civilizzazione.
? evidente allora che sotto quel caos o quel guazzabuglio, dietro quel disordine c?? in realt? un ordine. ? l?ordine dell?impresa e del mercato. Non siamo, come tu dici, fuori dal capitalismo che ha ammazzato se stesso, ma al contrario di fronte ad un nuovo paradigma capitalistico. Non siamo di fronte alla scomparsa, ma ad una iperestensione del capitalismo. Non siamo di fronte ad una evaporazione del potere politico che governa questi processi, ma alla costruzione di un nuovo ordine mondiale. Non siamo di fronte ad una nuova scienza. La mucca pazza non ? il frutto del caos, ma di uno sfruttamento che arriva alla natura, la modifica e la pu? distruggere. Esso ? cos? assolutizzato che persino alcune certezze del movimento operaio vengono messe in discussione, in alcuni casi spazzate via come quella del progresso legato allo sviluppo delle forze produttive.
Quello che tu chiami caos insomma, ? il prodotto di una instabilit? e precariet? determinata dalla contraddizione che questo stesso sviluppo produce e che non ? in grado di governare appunto se non attraverso il disordine e la guerra, con le conseguenze di crisi di civilt? che abbiamo sotto gli occhi.
In questo quadro il liberismo non ? la categoria astratta che ci consente una alterit?, che - come tu dici - ci da la realt? a cui opporci di opporci. Esso ?, come la guerra, la cultura politica e la politica sottesa alla natura profonda di questa globalizzazione capitalistica, cio? quella pi? funzionale ad essa, incurante delle tesi che l?hanno ispirata.
A questo quadro gi? in s? drammatico aggiungo un elemento. Di fronte a questo caos o a questa crisi di civilt?, la catastrofe ? fra le cose possibili. ? possibile cio? che l?umanit? non sia in grado di opporsi a questo processo che porterebbe ad un esito catastrofico. E non vedo, non immagino alcuna possibilit? catartica, alcuna possibilit? cio? di una soluzione salvifica e liberatrice, che nasca meccanicamente da un possibile crollo di civilt?. Sarebbe, al contrario, l?avverarsi dell?altra profezia di Marx, quella secondo la quale la mancata costruzione di un?altra societ? darebbe luogo alla rovina di entrambe le classi in lotta. Semmai si potrebbe pensare che ? proprio nel nostro tempo, il tempo della globalizzazione, che cova l?alternativa tra il socialismo e la barbarie.
E qui che nasce per noi la questione del comunismo o del comunismo oggi. Il problema ? grande, cos? grande che tu stesso lo riassumi in un interrogativo di civilt? che ti fa chiamare in causa il movimento newglobal, la sua aspirazione all?alterit? e al nuovo mondo possibile. Chiediamoci: perch? il movimento new global ? cos? cresciuto? Perch? ha intuito quel che anche tu pensi, cio? che deve formarsi una nuova alleanza, l?alleanza della specie. Solo che per il movimento questa per potersi affermare non pu? essere indistinta , ma deve fondarsi sulla critica e sulla contestazione di massa a questo modello sociale e di sviluppo. Deve cio? opporsi a questa modernizzazione capitalistica, deve costruire l?antagonismo a quello che tu vedi come un guazzabuglio e che per me, come per il movimento, ? la globalizzazione. Questo movimento ha un progetto. Questo movimento ha gi? in atto una contesa con questa modernizzazione capitalistica, di questa contesa esso vive.
? vero esso non parte dalla contestazione del modo di produzione capitalistico per arrivare a vederne le contraddizioni che genera sulla societ? e sulla natura. Il movimento fa un processo inverso. Parte da queste contraddizioni ma arriva a disvelarne le cause di fondo. Il progetto di nuovo comunismo pu? rinascere da qui. E pu? discutere a partire da qui quel che pu? accettare e ci? che deve rifiutare del ?900. E la politica, la politica di chi vuole il cambiamento, non pu? che cominciare da qui. Dalla individuazione della assolutizzazione del profitto come causa principale della devastazione. Dalla necessit? di una trascendimento della societ? capitalistica al fine di evitare la barbarie.
Per noi parlare di comunismo significa parlare di idee, culture, processi e soggetti assai diversi da quelli che hanno caratterizzato il ?900. In questo secolo grande e terribile l?idea di comunismo ? stata legata ad una sorta di ineluttabilit?, ad una attesa messianica. Su questa attesa e su queste certezze si ? fondata la strategia, si ? puntato alla conquista del potere e alla costruzione delle societ? postrivoluzionarie attraverso l?assolutizzazione dello Stato. Il proletariato si ?? fatto? partito organizzando il potere. Il comunismo reale ? stato tutto ci?, ma il movimento operaio ? stato anche molto altro.
Oggi noi parliamo di processo aperto e indefinito. Un processo nel quale vediamo i problemi irrisolti, ma non pretendiamo di dare una risposta ora, non pretendiamo di costruire organicamente e scientificamente una strategia per sempre e inequivocabilmente vincente. Parliamo di processualit?, non di una ineluttabilit?. Siamo consapevoli del fatto che non ? detto che ci? proponiamo diventi ?storia?. Ci serve un ritorno a Marx, al Marx pi? radicale nella critica alla politica e nell?idea di cambiamento e di liberazione della persona. E affidiamo la risposta ai processi, se ci si intende, alla lotta di classe, pi? che alle definizioni. Eccetto che su un punto, sul quale invece sentiamo di dover cominciare a rispondere da subito, quello del soggetto rivoluzionario. Il ?900 ha visto nel proletariato il centro dell?ingresso delle masse nella politica. Oggi occorre un ridefinizione. Nel movimento c?? un annuncio di questa soggettivit?, ma ? appunto un annuncio, soltanto l?indicazione di una pista di ricerca. Il profilo del nuovo proletariato non ci viene semplicemente dalla sua collocazione sociologica nel processo produttivo, che pure vede una radicale mutazione nella composizione e nel modo di essere del mondo del lavoro, ma nella costruzione dell?antagonismo, all?interno di un processo che tende a formare una nuova soggettivit? critica e una nuova critica dell?economia.
E il movimento dei movimenti assume pienamente la processualit? della costruzione. Esso da pi? importanza alla critica all?esistente rispetto alla definizione del modello finale. ? anche questo un fatto nuovo. Questo atteggiamento consente la liberazione da quel compromesso che nel ?900 il movimento operaio aveva pattuito con lo sviluppo, con la scienza e con la tecnica. Consente una radicalit? pi? libera anche se pi? a rischio perch? meno indirizzata. Consente, infine, di oltrepassare davvero senza remore, senza nostalgie e senza finzioni il ?900 dicendo ci? che in esso ? vivo e ci? che ? morto e quali problemi irrisolti ci consegna.
Il secolo appena passato ? stato sul versante della trasformazione della societ? capitalistica essenzialmente tre cose: il socialismo reale, i movimenti di massa e le teorie e la cultura del movimento operaio. Il primo ? morto. Le altre due, se pure duramente provate dalla sconfitta non solo sono vive ma, oggi, sono interrogate dal movimento dei movimenti. So bene che esse sono vissute sovente interconnesse nella risultante della storia delle masse. E so pure che i tragici errori, e persino i crimini, accumulati nella nostra storia non sono da esse facilmente espungibili senza determinare vuoti drammatici nell?immaginazione di un futuro liberato e senza che si ponga al comunismo un gigantesco problema irrisolto, quello della transizione. I movimenti di massa e la cultura del movimento operaio non sono per? un abbaglio e tanto meno un errore della storia che si pu? cancellare con facilit?. Ma la rinnovata critica all?economia capitalista della globalizzazione e alla sua organizzazione sociale e politica per prospettare il loro trascendimento chiede l'incontro del movimento con l?uscita da sinistra dal ?900. Ed ecco, caro Sofri che siamo arrivati al punto: l?eguaglianza e l?aspirazione ad essa mai dismessa da milioni di donne e di uomini. Questo alla fine ? il nodo da affrontare. Questo ? il problema che la politica deve risolvere se non si vuole rivelare servile al potere costituito e - quel che ? peggio - ad una organizzazione della societ? che si propone come eterna e eternamente in grado di organizzare lo sfruttamento e l?alienazione mentre pu? scavare la fossa all?intera umanit?. Non saprei come chiamare questo compito se non comunismo. Spero di essere riuscito a dirti perch?, secondo me, esso non risponda solo ad un dover essere e non rappresenti solo un utopia, ma possa costituire il fondamento di un lavoro politico.
Grazie
Le verit? dette sottovoce...
Autore: Un compagno